Del Trionfo della Libertà Canto I by Alessandro Manzoni Lyrics
Coronata di rose e di viole
Scendea di Giano a rinserrar le porte
La bella Pace pel cammin del sole, [3]
E le spade stringea d’aspre ritorte,
E cancellava con l’orme divine
I luridi vestigi de la morte; [6]
E la canizie de le pigre brine
Scotean dal dorso, e de le verdi chiome
Si rivestian le valli e le colline; [9]
Quand’io fui tratto in parte, io non so come,
Io non so con qual possa o con quai piume,
Quasi sgravato da le terree some. [12]
E mi ferì le luci un vivo lume ,
Ove non potea l’occhio essere inteso,
E vinto fu del mio veder l’acume, [15]
Com’uom che da profondo sonno è preso,
Se una vivida luce lo percote,
Onde subitamente è l’occhio offeso, [18]
Le confuse palpebre agita e scote,
Né può serrarle, né fissarle in lei,
Che sua virtute sostener non puote; [21]
Così vinti cadevan gli occhi miei,
Ma il Ciel forze lor diè più che mortali,
Da sostener la vista de gli Dei. [24]
Non cred’io già che fosser questi frali
Occhi deboli e corti e spesso infidi,
Cui non lice fissar cose immortali. [27]
Forse fu, s’egli è ver che in noi s’annidi,
Parte miglior che de le membra è donna;
Onde come io non so, so ben ch’io vidi. [30]
Vidi una Dea; nulla era in lei di donna,
Non era l’andar suo cosa mortale ,
Né mai fu tale che vestisse gonna. [33]
Di portamento altera , e quanta e quale
Su gli astri incede quella al maggior Dio
Del talamo consorte e del natale. [36]
Nobile, umano, maestoso e pio
Era lo sguardo, e l’armonia celeste
Comprenderla non può chi non l’udio. [39]
Sovra l’uso mortal fulgida veste
Copre le sante immacolate membra,
E svela in parte le fattezze oneste. [42]
Tessuta è in Paradiso, e un velo sembra;
Ma a tanto già non giunge uman lavoro;
Oh con quanto stupor me ne rimembra! [45]
Siede su cocchio di finissim’oro
Umilemente altera, ed il decenne
Berretto il crine affrena, aureo decoro. [48]
Stringe la manca la fatal bipenne,
E l’altra il brando scotitor de’ troni,
Onde a cotanta altezza e poter venne [51]
La gran madre de’ Fabj e de’ Scipioni;
Sotto cui vide i Regi incatenati
Curvar l’alte cervici umili e proni. [54]
Pronte a’ suoi cenni stanle d’ambo i lati
Due Dive, dal cui sdegno e dal cui riso
Pendon de l’universo incerti i fati. [57]
L’una è soave e mansueta in viso,
E stringe con la destra il santo ulivo,
E il mondo rasserena d’un sorriso. [60]
E l’altra è la ministra di Gradivo,
Che si pasce di gemiti e d’affanni,
E tinge il lauro in sanguinoso rivo. [63]
Due bandiere scotean de l’aure i vanni;
Su l’una scritto sta: Pace a le genti,
Su l’altra si leggea: Guerra ai Tiranni. [66]
Taceano al lor passar l’ire de’ venti,
Che, survolando intorno al sacro scritto,
Lo baciavano umili e reverenti. [69]
Quinci è Colei, che del comun diritto
Vindice, a l’ima plebe i grandi agguaglia,
Sol diseguai per merto o per delitto; [72]
E se vede che un capo in alto saglia,
E sdegni assoggettarsi a la sua libra,
Alza la scure adeguatrice, e taglia. [75]
E con la destra alto sospende e libra
L’intatta inesorabile bilancia,
Ove merto e virtù si pesa e libra. [78]
Non del sangue il valor, ch’è lieve ciancia,
E tanto nocque alle cittadi, e nuoce;
E sal Lamagna, e ’l seppe Italia e Francia. [81]
Dolce in vista ed umano e in un feroce
Quindi era il patrio Amor, che ai figli suoi
Il cor con l’alma face infiamma e cuoce; [84]
E i servi trasformar puote in Eroi,
E non teme il fragor di tue ritorte,
O Tirannia, né de’ metalli tuoi; [87]
Non quella cieca che si chiama sorte,
Che i vili in Ciel locaro, e fecer Diva;
E scritto ha in petto: O Libertate o morte. [90]
D’ogn’intorno commosso il suol fioriva,
L’aura si fea più pura e più serena,
E sorridea la fortunata riva. [93]
E a color che fuggir l’aspra catena,
Prorompeva su gli occhi e su le labbia
Impetuosa del piacer la piena; [96]
Come augel, che fuggì l’antica gabbia,
Or vola irrequieto tra le frondi,
Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia. [99]
Quindi s’udian romor cupi e profondi,
Un franger di corone e di catene,
Un fremer di Tiranni moribondi. [102]
Impugnando un flagel d’anfesibene
La Tirannia giacevasi da canto,
E si graffiava le villose gene. [105]
E i torbid’occhi si copria col manto;
Ché la luce vincea l’atre palpebre,
E le spremea da le pupille il pianto; [108]
Come notturno augel, che le latebre
Ospiti cerca allor che il Sole incalza
Ne’ buj recinti l’orride tenebre. [111]
Èvvi una cruda, che uno stile innalza,
E ’l caccia in mano a l’uomo e dice: Scanna,
E forsennata va di balza in balza. [114]
Nera coppa di sangue ella tracanna,
E lacerando umane membra a brani,
Le spinge dentro a l’insaziabil canna. [117]
E con tabe-grondanti orride mani
I sacrileghi don su l’ara pone,
E osa tendere al Ciel gli occhi profani. [120]
Che più? Sue crudeltati ai Numi appone,
E fa ministro il Ciel di sue vendette;
E il volgo la chiamò Religione. [123]
Si scolorar le faccie maledette,
E l’una a l’altra larva s’avviticchia,
E stan fra lor sì avviluppate e strette, [126]
Che il cor de l’una al sen de l’altra picchia,
Ansando in petto, e trabalzando, e poscia
La coppia abbominosa si rannicchia. [129]
Qual’è lo can che tremando s’accoscia,
Se il signor con la verga alto il minaccia,
Tal ristrinsersi i mostri per l’angoscia. [132]
Ma poi che di quell’altra in su la faccia
Vide languir la moribonda speme,
Colei che in sacri ceppi il volgo allaccia, [135]
Incorolla dicendo: E mute insieme
Morremo e inoperose? e il nostro lutto
Fia di letizia a chi ’l procaccia seme? [138]
Tutto si tenti e si ritenti tutto;
E se morire è forza pur, si moja ,
Ma acerbo il mondo ne raccolga frutto. [141]
Qualunque aspira a Libertate moja,
Né onor di tomba o pianto abbia il ribaldo.
E l’altra surse e gorgogliava: Moja. [144]
Moja, sì moja, e temerario e baldo
Cerchi in Inferno Libertade; il fio
Paghi col sangue fumeggiante e caldo. [147]
Acuto allor s’intese un sibilio
Via per le chiome ed un divincolarsi
E di morsi e percosse un mormorio. [150]
Poscia terribilmente sollevarsi
E un barlume di speme fu veduto
Brillar sui ceffi lividi e riarsi; [153]
Come allor che nel fosco aer sparuto
In fra ’l notturno vel si mostra e fugge
Un focherello passeggiero e muto. [156]
L’infame coppia si rosicchia e sugge
Di preda ingorda la terribil ugna,
Si picchia i lombi risonanti e rugge. [159]
Contra miglior voler voler mal pugna ;
E fra la vil perfidia e la virtute
Secura è sempre e disegual la pugna. [162]
Ma stavan l’aure pensierose e mute,
E il Ciel di brama e di timor conquiso,
E pendevan le rive irresolute. [165]
La Dea mirolle, e rise un cotal riso
Di scherno e di disdegno, che dipinge
Di gioja al giusto, al rio di tema il viso. [168]
E immobile in suo seggio il cocchio spinge
Su le attonite larve, e le fracassa,
E l’auree rote del lor sangue tinge. [171]
Né per timore o per desio s’abbassa,
Ma disdegnosa e nobile in sua possa
Alteramente le sogguarda, e passa. [174]
Fumò la terra di quel sangue rossa,
Ond’esalava abbominoso lezzo,
E da l’ime radici ne fu scossa. [177]
Ondeggia, crolla, e alfin si spacca, il mezzo
Apre del sen tenebricoso, e ingoja
Quei vituperj, e parne aver ribrezzo. [180]
Quinci acuto s’udì grido di gioja,
E quindi un fioco rimbombar di duolo,
Simile a rugghio di Leon che moja. [183]
S’alzò tre volte, e tre ricadde al suolo
Spossata e vinta l’Aquila grifagna,
Ché l’arse penne ricusaro il volo. [186]
Alfin, strisciando dietro a la campagna,
Le mozze ali e le tronche ugne, fuggio
A gl’intimi recessi di Lamagna. [189]
Allor prese i Tiranni un brividio,
Che gli fe’ paventar de la lor sorte,
E mal frenato in su le gote uscio, [192]
E gliele tinse d’un color di morte. [193]
Scendea di Giano a rinserrar le porte
La bella Pace pel cammin del sole, [3]
E le spade stringea d’aspre ritorte,
E cancellava con l’orme divine
I luridi vestigi de la morte; [6]
E la canizie de le pigre brine
Scotean dal dorso, e de le verdi chiome
Si rivestian le valli e le colline; [9]
Quand’io fui tratto in parte, io non so come,
Io non so con qual possa o con quai piume,
Quasi sgravato da le terree some. [12]
E mi ferì le luci un vivo lume ,
Ove non potea l’occhio essere inteso,
E vinto fu del mio veder l’acume, [15]
Com’uom che da profondo sonno è preso,
Se una vivida luce lo percote,
Onde subitamente è l’occhio offeso, [18]
Le confuse palpebre agita e scote,
Né può serrarle, né fissarle in lei,
Che sua virtute sostener non puote; [21]
Così vinti cadevan gli occhi miei,
Ma il Ciel forze lor diè più che mortali,
Da sostener la vista de gli Dei. [24]
Non cred’io già che fosser questi frali
Occhi deboli e corti e spesso infidi,
Cui non lice fissar cose immortali. [27]
Forse fu, s’egli è ver che in noi s’annidi,
Parte miglior che de le membra è donna;
Onde come io non so, so ben ch’io vidi. [30]
Vidi una Dea; nulla era in lei di donna,
Non era l’andar suo cosa mortale ,
Né mai fu tale che vestisse gonna. [33]
Di portamento altera , e quanta e quale
Su gli astri incede quella al maggior Dio
Del talamo consorte e del natale. [36]
Nobile, umano, maestoso e pio
Era lo sguardo, e l’armonia celeste
Comprenderla non può chi non l’udio. [39]
Sovra l’uso mortal fulgida veste
Copre le sante immacolate membra,
E svela in parte le fattezze oneste. [42]
Tessuta è in Paradiso, e un velo sembra;
Ma a tanto già non giunge uman lavoro;
Oh con quanto stupor me ne rimembra! [45]
Siede su cocchio di finissim’oro
Umilemente altera, ed il decenne
Berretto il crine affrena, aureo decoro. [48]
Stringe la manca la fatal bipenne,
E l’altra il brando scotitor de’ troni,
Onde a cotanta altezza e poter venne [51]
La gran madre de’ Fabj e de’ Scipioni;
Sotto cui vide i Regi incatenati
Curvar l’alte cervici umili e proni. [54]
Pronte a’ suoi cenni stanle d’ambo i lati
Due Dive, dal cui sdegno e dal cui riso
Pendon de l’universo incerti i fati. [57]
L’una è soave e mansueta in viso,
E stringe con la destra il santo ulivo,
E il mondo rasserena d’un sorriso. [60]
E l’altra è la ministra di Gradivo,
Che si pasce di gemiti e d’affanni,
E tinge il lauro in sanguinoso rivo. [63]
Due bandiere scotean de l’aure i vanni;
Su l’una scritto sta: Pace a le genti,
Su l’altra si leggea: Guerra ai Tiranni. [66]
Taceano al lor passar l’ire de’ venti,
Che, survolando intorno al sacro scritto,
Lo baciavano umili e reverenti. [69]
Quinci è Colei, che del comun diritto
Vindice, a l’ima plebe i grandi agguaglia,
Sol diseguai per merto o per delitto; [72]
E se vede che un capo in alto saglia,
E sdegni assoggettarsi a la sua libra,
Alza la scure adeguatrice, e taglia. [75]
E con la destra alto sospende e libra
L’intatta inesorabile bilancia,
Ove merto e virtù si pesa e libra. [78]
Non del sangue il valor, ch’è lieve ciancia,
E tanto nocque alle cittadi, e nuoce;
E sal Lamagna, e ’l seppe Italia e Francia. [81]
Dolce in vista ed umano e in un feroce
Quindi era il patrio Amor, che ai figli suoi
Il cor con l’alma face infiamma e cuoce; [84]
E i servi trasformar puote in Eroi,
E non teme il fragor di tue ritorte,
O Tirannia, né de’ metalli tuoi; [87]
Non quella cieca che si chiama sorte,
Che i vili in Ciel locaro, e fecer Diva;
E scritto ha in petto: O Libertate o morte. [90]
D’ogn’intorno commosso il suol fioriva,
L’aura si fea più pura e più serena,
E sorridea la fortunata riva. [93]
E a color che fuggir l’aspra catena,
Prorompeva su gli occhi e su le labbia
Impetuosa del piacer la piena; [96]
Come augel, che fuggì l’antica gabbia,
Or vola irrequieto tra le frondi,
Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia. [99]
Quindi s’udian romor cupi e profondi,
Un franger di corone e di catene,
Un fremer di Tiranni moribondi. [102]
Impugnando un flagel d’anfesibene
La Tirannia giacevasi da canto,
E si graffiava le villose gene. [105]
E i torbid’occhi si copria col manto;
Ché la luce vincea l’atre palpebre,
E le spremea da le pupille il pianto; [108]
Come notturno augel, che le latebre
Ospiti cerca allor che il Sole incalza
Ne’ buj recinti l’orride tenebre. [111]
Èvvi una cruda, che uno stile innalza,
E ’l caccia in mano a l’uomo e dice: Scanna,
E forsennata va di balza in balza. [114]
Nera coppa di sangue ella tracanna,
E lacerando umane membra a brani,
Le spinge dentro a l’insaziabil canna. [117]
E con tabe-grondanti orride mani
I sacrileghi don su l’ara pone,
E osa tendere al Ciel gli occhi profani. [120]
Che più? Sue crudeltati ai Numi appone,
E fa ministro il Ciel di sue vendette;
E il volgo la chiamò Religione. [123]
Si scolorar le faccie maledette,
E l’una a l’altra larva s’avviticchia,
E stan fra lor sì avviluppate e strette, [126]
Che il cor de l’una al sen de l’altra picchia,
Ansando in petto, e trabalzando, e poscia
La coppia abbominosa si rannicchia. [129]
Qual’è lo can che tremando s’accoscia,
Se il signor con la verga alto il minaccia,
Tal ristrinsersi i mostri per l’angoscia. [132]
Ma poi che di quell’altra in su la faccia
Vide languir la moribonda speme,
Colei che in sacri ceppi il volgo allaccia, [135]
Incorolla dicendo: E mute insieme
Morremo e inoperose? e il nostro lutto
Fia di letizia a chi ’l procaccia seme? [138]
Tutto si tenti e si ritenti tutto;
E se morire è forza pur, si moja ,
Ma acerbo il mondo ne raccolga frutto. [141]
Qualunque aspira a Libertate moja,
Né onor di tomba o pianto abbia il ribaldo.
E l’altra surse e gorgogliava: Moja. [144]
Moja, sì moja, e temerario e baldo
Cerchi in Inferno Libertade; il fio
Paghi col sangue fumeggiante e caldo. [147]
Acuto allor s’intese un sibilio
Via per le chiome ed un divincolarsi
E di morsi e percosse un mormorio. [150]
Poscia terribilmente sollevarsi
E un barlume di speme fu veduto
Brillar sui ceffi lividi e riarsi; [153]
Come allor che nel fosco aer sparuto
In fra ’l notturno vel si mostra e fugge
Un focherello passeggiero e muto. [156]
L’infame coppia si rosicchia e sugge
Di preda ingorda la terribil ugna,
Si picchia i lombi risonanti e rugge. [159]
Contra miglior voler voler mal pugna ;
E fra la vil perfidia e la virtute
Secura è sempre e disegual la pugna. [162]
Ma stavan l’aure pensierose e mute,
E il Ciel di brama e di timor conquiso,
E pendevan le rive irresolute. [165]
La Dea mirolle, e rise un cotal riso
Di scherno e di disdegno, che dipinge
Di gioja al giusto, al rio di tema il viso. [168]
E immobile in suo seggio il cocchio spinge
Su le attonite larve, e le fracassa,
E l’auree rote del lor sangue tinge. [171]
Né per timore o per desio s’abbassa,
Ma disdegnosa e nobile in sua possa
Alteramente le sogguarda, e passa. [174]
Fumò la terra di quel sangue rossa,
Ond’esalava abbominoso lezzo,
E da l’ime radici ne fu scossa. [177]
Ondeggia, crolla, e alfin si spacca, il mezzo
Apre del sen tenebricoso, e ingoja
Quei vituperj, e parne aver ribrezzo. [180]
Quinci acuto s’udì grido di gioja,
E quindi un fioco rimbombar di duolo,
Simile a rugghio di Leon che moja. [183]
S’alzò tre volte, e tre ricadde al suolo
Spossata e vinta l’Aquila grifagna,
Ché l’arse penne ricusaro il volo. [186]
Alfin, strisciando dietro a la campagna,
Le mozze ali e le tronche ugne, fuggio
A gl’intimi recessi di Lamagna. [189]
Allor prese i Tiranni un brividio,
Che gli fe’ paventar de la lor sorte,
E mal frenato in su le gote uscio, [192]
E gliele tinse d’un color di morte. [193]